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Q uando l’Italia entrò nella Prima Guerra Mondiale, nel 1915, era
impreparata a sostenere un conflitto prolungato. Eppure, grazie
a una mobilitazione industriale senza precedenti, riconvertì il
proprio apparato produttivo e affrontò una delle più grandi sfide
della sua storia, dando vita a un settore fino ad allora inesistente: l’industria
aeronautica. Quel periodo segnò la nascita dell’industria moderna italiana. Il
parallelismo con l’attualità non è casuale. Allora come oggi, l’Europa si trova
a un bivio, tra conflitti ad alta intensità e il paventato disinteresse americano
nella difesa del Vecchio continente. Reagire con visione politica, investimenti
mirati e coraggio strategico farà, pertanto, la differenza tra diventare una
potenza autonoma o restare una realtà poco influente nello scacchiere
internazionale.
In questo contesto, è fondamentale che l’Europa e l’Italia rafforzino le proprie
capacità di difesa, investendo in tecnologie all’avanguardia e promuovendo
una maggiore cooperazione tra i Paesi alleati. La sicurezza non è un lusso,
ma una necessità imprescindibile per garantire la prosperità e la stabilità dei
nostri cittadini. Ma una delle sfide più urgenti è saper decidere rapidamente.
Il piano Readness 2030 proposto da Bruxelles, ne è un esempio, con una
dote di 800 miliardi di euro, di cui 650 dai bilanci nazionali e 150 garantiti
dal bilancio UE-programma Safe. Il piano, però, stenta a decollare per via di
alcune divergenze emerse tra gli Stati membri, specialmente quelli con alto
debito pubblico come l’Italia.
In questo contesto si inserisce la proposta di un Meccanismo Europeo di
Difesa, proposto dal think tank belga Bruegel. Questo prevede la creazione
di un fondo esterno all’UE per favorire l’integrazione dei cosiddetti “paesi
volenterosi” ed evitare le regole del patto di stabilità. Il progetto ha già
ottenuto il sostegno di Francia e Inghilterra e l’interesse di Polonia, Norvegia
e, in prospettiva, anche dell’Ucraina. Un mosaico di paesi UE ed extra UE che
rischia però di accentuare le divisioni interne all’Unione. Alcuni paesi come
Germania e Belgio sostengono, invece, che l’UE dovrebbe prima esaminare
gli strumenti esistenti, come la Banca Europea per gli Investimenti (BEI), il
Fondo Europeo per la Difesa (EDF) e il piano comunitario Readiness 2030,
prima di crearne di nuovi.
Al netto dei vari strumenti finanziari messi in campo, la sfida fondamentale
resta quella di superare le diffidenze e costruire una Difesa comune credibile,
accompagnata da una strategia industriale condivisa, capace di coniugare
innovazione, sostenibilità ed efficienza militare, che non sia in contrasto con
la NATO, ma che invece costituisca il pilastro europeo dell’Alleanza atlantica.
In un mondo in cui la “forza” torna a imporsi sul primato del “diritto”, la
Difesa comune non rappresenta solo un’esigenza militare, ma è prima di
tutto una svolta politica e culturale. Un cambiamento di paradigma che
dovrà coinvolgere tutti i settori, a partire dai comparti strategici dell’apparato
produttivo. Non è un caso, infatti, che alcuni Stati membri abbiano
attivato processi di riconversione industriale, sospinti anche dalla crisi
dell’automotive, orientandosi verso approvvigionamenti di carattere militare.
Un segnale concreto che la Difesa europea si costruisce anche attraverso il
tessuto economico e sociale del Continente.