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Il Sahel dalla presenza francese all’influenza russa
si incentra sul tentativo di implementare la cosiddetta stratégie du
quadrillage: la perlustrazione incrociata dei territori per evitare che
un gruppo armato ostile, operante contro uno Stato, trovi rifugio
nelle “zone grigie” dello Stato confinante.
Il passaggio da Alleanza a Confederazione mira ad estendere la
collaborazione dalla sfera della sicurezza a settori quali l’energia, i
trasporti e le risorse idriche. Le giunte dei tre Stati hanno dichiarato
apertamente che la scelta confederale implica un “voltare le spalle
definitivamente alla CEDEAO” cioè alla Comunità Economica
degli Stati dell’Africa Occidentale (nota anche come ECOWAS,
secondo l’acronimo inglese), l’organizzazione sovranazionale che
ha spesso mediato nelle controversie regionali ma che gli attuali
governi di Niger, Mali e Burkina Faso considerano asservita agli
interessi occidentali e soprattutto alla Francia. Proprio il livello di
scontro dei tre Paesi con la CEDEAO
costituirà un termometro importante
dell’effettiva tenuta del progetto
confederale.
Una prima criticità da considerare,
di natura propriamente geopolitica,
consiste nel fatto che Niger, Mali e
Burkina Faso si trovano nella parte
più interna del Sahel e sono privi di
sbocco sul mare. Gli Stati lontani
dalle fasce costiere tendono di per
sé ad essere sfavoriti nel commercio
e soggetti ad influenze esterne.
La siccità del territorio desertico
saheliano rende la Confederazione
del Sahel ancor più vulnerabile in tal
senso: nel caso di una crisi aperta con la CEDEAO, quest’ultima potrebbe facilmente
attuare un blocco economico contro di essa.
Un secondo aspetto problematico riguarda la difficile combinazione di localismo e
integrazione sovranazionale che i tre Paesi pretendono di perseguire. Essi si stanno
sforzando, ad esempio, di valorizzare l’uso di idiomi locali (specie nei media), ma
spesso il francese resta l’unica lingua veicolare anche all’interno di un singolo Stato.
Inoltre, gli scontri interetnici come quelli tra i Fulani e i Dogon o il separatismo dei
nomadi Tuareg rischiano di essere alimentati da quest’enfasi sul localismo. Politiche
di questo tipo possono insomma avere l’effetto di sollecitare indipendentismi etnico-
tribali che pregiudicano la fattibilità di una Confederazione e rendono necessario il
supporto di un forte alleato esterno.
Le fragili basi su cui sembra poggiare il progetto confederale dei tre Stati saheliani
ne fa un buon esempio, secondo alcuni analisti, di “minilateralismo”: un approccio alla
politica estera che consiste in alleanze multilaterali flessibili e leggere, limitate a pochi
soggetti e non basate su trattati giuridicamente vincolanti. Secondo i sostenitori, il
minilateralismo è potenzialmente virtuoso perché punta a trovare risposte concrete
a problemi concreti, senza ingessare gli Stati con regole troppo stringenti che ne
comprimono la sovranità. Secondo i detrattori, esso rischia invece di risultare una
diplomazia dell’inconcludenza proprio a causa della mancanza di programmi e obblighi
giuridici. Nel contesto saheliano, il minilateralismo di Niger, Mali e Burkina Faso appare
terreno fertile per il radicamento di attori esterni dalla postura assertiva come la
Russia.
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