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Farian SABAHI





            il presidente democratico Barack Obama, ma il Congresso statunitense non lo aveva
            mai ratificato. Di conseguenza, il repubblicano Donald Trump aveva avuto gioco facile
            quando, l’8 maggio 2018, aveva emanato un National Security Presidential Memorandum
            ritirando gli Stati Uniti dal JCPOA e, dopo un periodo di wind down per autorizzare le
            attività di liquidazione e disinvestimento, aveva imposto nuove sanzioni contro l’Iran.
            Tra queste, vi sono anche le sanzioni secondarie che colpiscono non solo le cosiddette
            United States persons (tutti i cittadini statunitensi ovunque si trovino; tutti gli stranieri
            residenti permanenti negli Stati Uniti, e quindi i possessori di green card; tutte le entità
            organizzate e incorporate ai sensi delle leggi degli Stati Uniti; tutte le persone che si
            trovano negli Stati Uniti), ma anche i soggetti non statunitensi, e quindi per esempio
            le imprese europee e i loro manager che decidano di continuare a fare business con
            Teheran.
            Di fronte alle sanzioni secondarie statunitensi che avrebbero potuto metterle in
            serie difficoltà, impedendo loro di utilizzare i dollari e rovinando la loro reputazione
            sui mercati, le imprese europee hanno rinunciato a commerciare con Teheran. Di
            fatto,  l’Unione  Europea  non  ha  quindi  mantenuto  fede  al  JCPOA.  Da parte  loro,  gli
            iraniani l’avevano invece rispettato, come aveva d’altronde certificato l’AIEA, ovvero
            l’Agenzia internazionale per l’energia atomica di cui l’Italia è uno dei paesi fondatori.
            Con l’inasprirsi delle sanzioni internazionali e la messa in atto dell’embargo petrolifero
            voluto da Trump, l’economia iraniana non ha potuto risollevarsi nonostante i tentativi
            di Russia e Cina nello sminuire la forza delle sanzioni, bypassando l’embargo sull’export
            degli idrocarburi, di gran lunga la maggior fonte di introiti per la Repubblica islamica.
            Ed è stato così, venendo meno al JCPOA sottoscritto a Vienna il 14 luglio 2015, che
            gli Stati Uniti e indirettamente anche l’Europa hanno dato l’Iran in pasto a Pechino, in
            barba allo slogan khomeinista “Né Est né Ovest”. Oggi, l’80 percento delle esportazioni
            di greggio dell’Iran sono convogliate verso la Cina, che resta il maggiore importatore
            di petrolio al mondo. Le imprese statali cinesi non hanno ripreso l’importazione e la
            raffinazione del petrolio iraniano perché le sanzioni secondarie del Tesoro statunitense
            restano, anche per loro, un deterrente. Ma intanto le teapots, le cosiddette “teiere”
            cinesi  –  ovvero  le  piccole  raffinerie  indipendenti  su  piccola  scala  concentrate  nella
            provincia costiera dello Shandong - fanno scorta di oro nero iraniano a prezzi di favore.
                                               GLI ESCLUSI ECCELLENTI

             Tra gli esclusi eccellenti alla corsa delle presidenziali, ancora una volta, vi è l’ex presidente Ahmadinejad, a cui
             erano già state precluse le presidenziali del 2017 e 2021. Nonostante le pressioni dell’establishment religioso
             della città santa di Qum, anche l’ex presidente del Parlamento Ali Larijani, considerato un moderato, è stato
             nuovamente bocciato dal Consiglio dei guardiani, come nelle presidenziali di tre anni fa.
             Le vicende di Ali Larijani meritano alcuni paragrafi di approfondimento per meglio comprendere come le elezioni
             possano essere condizionate da dinamiche di clan e da alleanze in cui il potere politico si intreccia a quello
             religioso. Nato nel 1957 nella cittadina irachena di Najaf, conosciuta per i suoi seminari, Ali Larijani ha legami
             stretti con i vertici dell’Islam sciita. Se è stato escluso da questa corsa elettorale, è per evitare che potesse
             in qualche misura aiutare suo fratello Sadeq Amoli Larijani - a capo della magistratura dal 2009 al 2019 e
             attualmente presidente del Consiglio dell’interesse nazionale – nella successione alla carica di leader supremo,
             qualora l’ayatollah Ali Khamenei (n. 1939) morisse o non fosse più in grado di guidare l’Iran.
             Privo di carisma ma membro di una famiglia influente, dal punto di vista politico, Ali Larijani era stato nominato
             dal leader supremo presidente dell’emittente radio televisiva di Stato. Aveva poi ricoperto la carica di segretario
             del Consiglio Supremo per  la Sicurezza  Nazionale, portando  avanti  i negoziati sul  nucleare con  l’Europa.
             Successivamente, dal 2008 al 2020, era stato presidente del parlamento. Incarichi, questi, che dimostrano


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